La Casa

La casa di Carignano e’ stata comprata dai miei nonni materni nel primo dopoguerra. Si pensava ad una nuova vita e a cancellare il piu’ presto possibile i ricordi del villino di famiglia sul lungomare di Livorno, bombardato dagli alleati.
Ma la memoria aveva anche altri richiami. Da tempo, la nonna toscana, tornata in Italia dopo i lunghi anni che aveva passato a Londra, negli Stati Uniti e in Libia, sognava di ricreare per se’ l’atmosfera di un luogo molto amato, quello dove aveva passato gli anni piu’ belli della giovinezza, la grande casa dei cugini di Firenze, a Bivigliano sopra Pratolino.
La chiamarono “Villa al Console” in onore del còrso Giuseppe Albertini che fu fatto Console da Napoleone: sulle prime colline di Carignano, dove l’aria anche oggi e’ ben temperata e pulita, un altro Console dell’Impero romano aveva, si dice, costruito la propria dimora di cui restano le vestigia sepolte.

Da Roma dove si erano trasferiti, a Carignano il nonno e la nonna andavano due mesi l’anno, dai primi di settembre a ottobre, fino ai Morti. Era la lunga villeggiatura, e cosi’ si finiva la loro torrida estate passata nelle isole del sud d’Italia.
In quella stagione di mezzo, tra le spesse mura della casa, il clima era fresco e ombroso.
La campagna cambiava lentamente. I fichi maturavano spaccandosi sui rami, le ortensie seccate prendevano un odore azzurrognolo, i primi ciclamini spuntavano qua e la’ come magicamente nei due grandi prati davanti a casa. L’aria era gia’ diversa, sapeva di muschio e umido.
Per noi piccoli nipoti ritrovarci a Carignano in quella stagione era una pausa: qui tutto era calmo e un po’ lento, e anche il pensiero imminente della scuola non incombeva su di noi.
A Carignano eravamo felici. Nella villeggiatura non c’era molto da fare, a parte annoiarsi naturalmente. Eppure quella noia era bella, perche’ riempiva le nostre giornate di qualcos’altro.

La famiglia da Bologna e dalle Marche, i cugini di Roma, gli zii che arrivavano dalla Germania, dall’Inghilterra, dal Brasile e dall’America, si ritrovavano tutti per qualche tempo a vivere insieme. C’era una strana, allegra e disarmonica armonia di cose e abitudini diverse.
Spesso le grandi case hanno qualcosa di materno, capace di accogliere in se’ le storie e forse anche le persone piu’ disparate. A Carignano era cosi’.
Persino i ritmi delle giornate erano diversi. I genitori, gli zii e i nonni vivevano come per conto loro, confinati in un’ala della villa e indaffarati in chissa’ quali questioni. Noi ragazzi occupavamo il giardino, i nascondigli tra alberi, la vecchia Limonaia e il resto.
Soltanto all’ora dei pasti comparivamo tutti al grande tavolo ovale della stanza da pranzo, tenuta sempre in penombra dalla nonna.
Per un po’ una gran confusione riempiva la casa. Poi, tornava il silenzio e ognuno andava per conto suo.
Carignano apparteneva soprattutto ai bambini. Per noi le giornate non passavano mai. I giorni si susseguivano ai giorni, e ingannare il tempo e il trascorrere delle ore era il nostro passatempo.
Su ogni cosa gravava un’atmosfera vaga e sospesa. Il tempo con le sue committenze smetteva di contare.
In quei pomeriggi infiniti e un po’ languidi tutto, in un certo senso, sembrava ancora possibile.

Gli echi della realta’ arrivavano attutiti dalle fitte siepi di bosso che circondavano da ogni lato il nostro giardino.
Le cose la’ fuori – la citta’, Lucca, il mare, la Versilia – parevano lontane, o comunque non poi cosi’ importanti. Tutto sommato, poco urgenti.
Ora capisco che vivevamo davvero in un luogo appartato in se’ stesso, il giardino conchiuso tanto caro agli antichi proprietari delle ville romane che nelle vacanze amavano circondarsi di ozio, quella specie di vuoto dei pensieri che riempie e riposa l’anima.
Anche oggi, quando sono a Carignano provo questa strana, indefinibile sensazione. Essere fuori dal mondo, senza sentirne la mancanza.